Storia

Gli archivi, che hanno spinto alla ricerca delle memorie più antiche su Monteporzio sono quelli stessi che riguardano gli antichi monasteri di San Lorenzo in Campo, Fonte Avellana e San Gervasio. Molte carte, come si può constatare dalla bibliografia, sono state già pubblicate e ciò ha permesso, a parte i reperti dell’evo antico, di entrare nell’alto medio evo fino ai bizantini della Pentapoli, ai Longobardi ed ai Bulgari. Evidentemente, oltre a quelle antiche, le stesse carte danno molte notizie dell’evo moderno, sempre seguendo le vicende di quei monasteri. Così si devono consultare gli archivi Barberini in deposito alla Biblioteca Vaticana, del Collegio Germanico e di Stato di Firenze e di Pesaro. Qui particolarmente, nell’archivio di Stato di Pesaro, si conservano anche i documenti delle abbazie di San Gaudenzio di Senigallia e di Sitria, cui era legato il monastero di San Gervasio.
Avendo avuto origine Monteporzio, e in parte Castelvecchio, come centri abitati, con la venuta dei conti di Montevecchio nel Quattrocento, la storia di questi luoghi è registrata nell’archivio di questa famiglia, dove ha attinto Laura di Montevecchio Almerici. Qui la fonte è tutt’altro che esaurita e sarebbe assai interessante la ricerca e lo studio su gli Statuti del feudo.
Fondamentali sono poi gli archivi ecclesiastici: archivio parrocchiale di Monteporzio, archivio parrocchiale di Castelvecchio e Cancelleria vescovile di Senigallia. Interessa anche l’archivio comunale di Senigallia, dove sono conservati alcuni libri contabili della famiglia Montevecchio.
Sia per Monteporzio, appodiato di Mondolfo durante il Regno Italico, e molto più per Castelvecchio, appodiato di Mondolfo prima e dopo il Regno Italico, è necessaria la ricerca anche nell’archivio di questo comune. Infine, dopo la soppressione del feudo dei Montevecchio, centro principale della raccolta dei documenti è l’archivio comunale di
Monteporzio, dove tuttavia si conservano in un fascicolo inventariato anche alcuni documenti del periodo feudale.
Ma è necessario aggiungere a quanto detto una nota particolare sull’archivio dei Montevecchio. Questo archivio era stato depositato nella Biblioteca Federiciana di Fano. Ma il duca Cante di Montevecchio Benedetti il 22 agosto 1950 dichiarò che, vista l’impossibilità di disporre nella sua casa sita in Piazza Costanzi di Fano, allora occupata da un istituto religioso, sarebbe stato suo desiderio riprendere l’archivio e sistemarlo convenientemente, secondo le disposizioni di legge, nella sua abitazione di Castelviscardo in provincia di Terni, in attesa di una sistemazione definitiva nella città stessa di Fano, sede della famiglia. Tale dichiarazione venne fatta davanti al dottor Antonino Lombardo, Direttore di 2° classe nell’Amministrazione degli archivi di Stato, in servizio presso il Ministero dell’Interno, incaricato della Soprintendenza archivistica per il Lazio, Umbria e Marche, presenti anche, nella sede della Biblioteca Comunale Federiciana di via Castracane, il Direttore della stessa Biblioteca dottor Cesare Moreschini, il conte Pier Carlo Borgogelli Ispettore Onorario Bibliografico e Archivistico, il conte Luciano Aventi di Sorrivoli (cognato del duca), la N. D. Cordelia Flaiani di Montevecchio vedova Vitali ed il signor Evaristo Menghetti fu Perseo di Fano. Il dottor Moreschini ed il conte Borgogelli espressero il desiderio che l’archivio stesso fosse restituito definitivamente a Fano a disposizione degli studiosi. Accolte tali dichiarazioni, venne stilato un verbale in quadruplice copia: per il Ministro dell’interno, per la Soprintendenza di Roma, per la Biblioteca Federiciana e per il duca Cante di Montevecchio Benedetti.
Tuttavia nella stessa Biblioteca sono conservati molti volumi manoscritti dell’archivio Montevecchio, raccolti nella XIX sezione. Si tratta di 35 volumi, riguardanti la famiglia del patriziato fanese (cioè i «signori» di Monteporzio), eccetuato il n. 7 che proviene da un archivio privato di Matelica; gli ultimi tre volumi raccolgono documenti e diversi manoscritti e stampe. I volumi furono donati alla Federiciana dal signor Romolo Eusebi, mentre l’insieme dei documenti venne acquistato per il tramite del signor Eusebi nella sua veste di antiquario.

GLI ABORIGENI PREGALLICI
Il nostro territorio entra nella storia soltanto con i Galli Senoni, ma è documentato che esso fosse abitato già dagli uomini dell’età della pietra.
Sul greto del fiume Nevola, affluente del Cesano presso San Lorenzo in Campo, sono stati rinvenuti manufatti bifacciali di tipo acheuleano. A età musteriana si fa risalire il megacero d’Irlanda (fossile gigantesco di circa quattro metri), assai raro in Italia, scoperto nella valle del Cesano presso Miralbello. Nel 1951 il dottor Giorgi ha raccolto a Monteporzio un «grosso frammento di un nucleo siliceo color carne e tavoletta di amigdaloide»; questi pezzi sono conservati nel Museo di San Lorenzo 1.
A Ripabianca di Monterado, ai confini del comune di Monteporzio, venne esplorata nel 1962 dalla Soprintendenza alle Antichità delle Marche una delle più interessanti e studiate stazioni neolitiche, i cui reperti sono ora custoditi nel Museo Nazionale di Ancona 2. Si tratta di una capanna di otto metri con la parte inferiore ricavata un metro e cinquanta sotto il deposito fluviale. Questi neolitici, pacifici agricoltori, abitavano qui nel V millennio a. C. e precisamente, stando all’analisi del carbonio, 6210 circa o 6140 circa anni fa. L’abbondante materiale (vasi di ceramica in varie forme, idoletti fittili, industria littica, ossidiana e su osso, molti elementi ornamentali come valve di conchiglia e pezzi di argilla cotta con impronta di rame e di frascame) dimostra largamente la cultura di questi popoli, che partecipano alla grande conquista umana della pastorizia e della agricoltura. Nei resti faunistici si riconosce una prevalenza degli Ovidi sui Bovidi, una relativa presenza di Canis familiaris ed una presenza di Cervus elaphus, di Vulpes vulpes, di Ursus arctos, di Felix sylvestris, di Capreolus capreolus, e di Putorius putorius. Non sappiamo se la pacifica vita dei nostri agricoltori neolitici fosse stata sconvolta dai mercanti e guerrieri razziatori eneolitici, di cui è noto lo stanziamento alle Conelle di Arcevia nel III millennio a. C. È una questione da lungo tempo dibattuta, molto confusa e mai risolta quella riguardante i passaggi dai vari popoli nei nostri luoghi, sui quali poi si sarebbero sovrapposti i Galli Senoni nel secolo V a. C. Secondo il Cimarelli, sarebbero sciamati qui i popoli dopo la confusione di Babele; secondo lo Speranza, sarebbero venuti dall’alveare dei popoli nell’altipiano dell’Imalaia; il Tondini parla della colonizzazione fenicia. La miglior fonte orientativa è data da Plinio il Vecchio (III, 112-114), che pone sull’Agro Gallico (il futuro territorio dei Senoni da Rimini all’Esino) i successivi passaggi dei Siculi, dei Liburni, degli Umbri, degli Etruschi e infine dei Galli Senoni.
È accertato che la vallata del Cesano era intensamente popolata da popolazioni della stessa civiltà di Novilara al sec. X a. C. È nota la necropoli San Costanzo, una delle più arcaiche necropoli picene3. Meno nota è la necropoli di Monte d’Oro di Scapezzano, una tipica terrazza sul Cesano presso il mare. Era stata già questa segnalata dal Moretti, Soprintendente alle Antichità per le Marche, nel 1928 con residui di tombe, che indicano un vicino centro abitato. Recentemente gli alunni della scuola elementare di quella località hanno raccolto e stanno raccogliendo abbondante materiale, che conferma il centro abitato e lo specifica di notevole grandezza. Si tratta di anse d’impasto a verniciatura nerastra, frammenti di ciotole a cordicella e cerchiolini, rocchetti e fuseruole di varie forme e dimensioni, conchiglie ornamentali4. Ma nel nostro territorio di Monteporzio venne rinvenuto il reperto, forse il più interessante della vallata relativamente a questa civiltà del ferro: il grande vaso attico. Ne dà notizia, con lettera in data 16 ottobre 1952 al Giorgi, il Soprintendente alle Antichità per le Marche Giovanni Annibaldi, accludendo due lucidi, qui riprodotti nelle Tavole, «del disegno sommario, riguardante le figurazioni del cratere a colonnette che si conservava nel secolo scorso in casa dei Duchi di Monte vecchio a Fano e che si era rinvenuto in un tenimento della stessa famiglia a Monteporzio dentro un sepolcro con altre suppellettili. L’altezza del vaso è di m. 0,45»5.
Chi era il popolo di questa civiltà, presente nella vallata del Cesano e qui a Monteporzio dopo i neolitici e prima dell’arrivo dei Senoni? È un popolo arcaicizzante, diretto discendente dei neolitici, conservatore e in cui sopravvive l’antico rito della inumazione con i corpi rannicchiati. Le iscrizioni di Novilara «ci presentano una lingua, nel suo insieme, né etrusca, né italica, né celtica, né illirica, per quanto, com’è naturale, vi si possa trovare qualche elemento dovuto a contatti cogli Illirici e coi Nord-Etruschi, con cui hanno in comune l’alfabeto, di origine focea»6. Secondo gli storiografi De Sanctis e Pareti, si tratterebbe di un ramo dei Pelasgi, cioè degli Asili. Silio Italico (VIII, 443-445) fa provenire questo nome di Asili da Aso, re dei Pelasgi, che avrebbe dato il nome anche al fiume Esino. Anche Scimmo da Chio e Diodoro Siculo vedono nei nostri luoghi i Pelasgi. Dato pure il carattere mitico di questo popolo e date anche le esagerazioni di scrittori locali, che vantano le origini delle nostre popolazioni e specificamente della città di Suasa dai Pelasgi, non è sana critica l’antica contraddizione, l’antico antagonismo tra mondo agricolo e mondo pastorale, evidentemente non come elementare distinzione di forze socialmente differenziate, ma come complessa contrapposizione di società in via di organizzazione urbana e nazionale alle comunità frammentarie delle genti italiche le quali accentuano, in virtù di questo rinnovato antagonismo, la loro fisionomia di pastori-guerrieri. Subappeninici e Italici (Umbri, Sabini, Aborigeni, Siculi, Enotri, Itali, Morgeti, Ausoni) divengono in questo senso termini equivalenti. La frammentarietà onomastica rispecchia con ogni probabilità una reale struttura delle comunità pastoralistiche le quali vivono riunite in famiglie o gruppi di famiglie (gentes) e che, a causa di situazioni contingenti, si volgono verso forme di associazione a tipo federativo o, viceversa, verso forme di dissociazione. Un esempio di dissociazione è il distacco di un gruppo dal ceppo principale, per il trasferimento in altri territori: è il costume italico del ver sacrum legato verisimilmente alla pratica della transumanza stagionale».
Specialmente tra gli archeologi esiste, in mezzo a tante differenti opinioni, una certa concordia nel chiamare «civiltà picena» questa degli abitanti delle Marche nei secoli X-V a.C. Pur volendo precisare con insistenza l’uso del termine soltanto in senso convenzionale (relativo ai popoli abitatori del futuro piceno), essi si trovano di fronte a tre rischi: primo, di dare come definita l’unità di cultura esclusiva delle Marche; secondo, di identificare unità di cultura con unità di popolo9; terzo, di favorire la confusione di questi Piceni con i Piceni storici (cioè di quei Picentini, che si allearono con i Romani nel 299 a.C. e di cui Livio X, 11, 7). Il Giorgi e la Lollini riferiscono ai Piceni la cultura, di cui è testimonianza la suddetta necropoli 10. Ma per l’Agro Gallico, cioè per i nostri luoghi, si aggiunge un’altra ragione, che convince di non usare il termine «civiltà picena» per evitare la confusione: non esiste nessuna prova certa, letteraria ed archeologica, che testimoni la presenza dei Piceni prima e dopo l’avvento dei Galli.

I GALLI SENONI
Abitando i Galli, come afferma Polibio (II, 17, 9), «in villaggi non fortificati» e stimando essi l’unica ricchezza, non le belle abitazioni, ma soltanto l’oro e il bestiame, è impossibile, nel periodo preromano, trovare loro reliquie di edilizia. I reperti gallici sono soltanto nei sepolcri e negli oggetti di bronzo e di ferro. «Sepolcri gallici a tipo inumazione si trovarono a Piobbico presso Urbania, e San Pietro in Musio comune di Arcevia, privi di oggetti etruschi o greci; sotto il colle di Ravaje presso Pergola, a S. Gervasio presso Mondolfo ecc. Il ferro prevale sul bronzo, presenza di lunghe spade di ferro, tipo La Tène. Vicino ad armi di ferro si rinvennero elmi di bronzo a calotta del tipo etrusco, del V e IV secolo. Uno dei detti elmi si trova nella raccolta di oggetti antichi presso Monti a Nidastore. Altri sepolcri gallici si trovarono a Montefortino (del III secolo) presso Arcevia (…). Un idoletto gallico di bronzo con torques si rinvenne persino sul Catria, e si ricorda ancora a Cagli la necropoli gallica di S. Vitale. Presso Pergola vi è una località chiamata: Piano dei Galli»1. L’elmo gallico, di cui parla il Giorgi 2 e del quale la nostra tavola, sarebbe invece stato rinvenuto a Bastia di Mondolfo. Tombe alla cappuccina con scheletri circondati da lance, giavellotti, lucerne, collane, braccialetti, vasi di terracotta, monete, oggetti attribuiti almeno in parte ai Galli Senoni, vennero rinvenuti nel 1890-1893 in occasione della costruzione della stazione ferroviaria di Pergola 3. Anche tra i reperti di Monte d’Oro, di cui si è parlato nel cap. II, se ne riscontrarono alcuni della civiltà gallica.
Dal territorio di Monteporzio non vengono dunque segnalati reperti gallici ma da tutta la zona circostante. Si deve comunque notare che la vallata del Cesano è al centro del territorio occupato dai Senoni e Monteporzio è in sito equidistante o quasi tra le loro città Sena e Suasa. Si deve anche notare che la vicina Sena era la metropoli di quei Galli e ciò, nella opinione pressoché comune, si accerta per tre motivi: primo, per il legame etimologico Sena-Senoni sia che il nome della città provenga da quel popolo sia viceversa; secondo, perché la grande avventura, dei Senoni nello scontro secolare con i Romani, inizia, prosegue e termina a Sena; terzo, perché le uniche città
«mediterranee» (cioè dell’entroterra senone), Suasa e Ostra (Tolomeo, III, 1) sono dell’entroterra senigalliese. I Senoni si sono stanziati nell’Agro Gallico (da Rimini all’Esino), almeno fin dalla fine del secolo V a. C. e vengono così descritti da Floro (I, 7, 4): «I Galli Senoni furono gente feroce per natura, di costumi inauditi, a ciò conformati dalla mole dei loro corpi e dalla grandezza delle loro armi e fu sotto ogni aspetto tanto terribile che sembrava nata appositamente per uccidere gli uomini e distruggere le città». La loro invasione deve essere interpretata come una lenta e progressiva espansione verso terre più ricche. Così avevano occupato il litorale adriatico fino oltre Camerano e si erano diretti sulla via di Roma, quando a Camerino (l’antica Camars Clusium, poi erroneamente confusa con Chiusi in Toscana, chiamata anch’essa Camars Clusium) si scontrano con i Romani ed iniziano nel 390 (nella cronologia greca 387/386) la grande avventura.
Questa in sintesi la lectio vulgata, specialmente da Tito Livio (libro V), avvertendo la necessità di distinguere il racconto sostanzialmente storico dalla leggenda.
Il Brenno, re dei Senoni, infuriato contro i Romani, che contro il diritto delle genti avevano parteggiato per i Clusini (i Camerinesi), ne distrugge l’esercito nella battaglia dell’Allia a 11 miglia da Roma a sinistra del Tevere (probabilmente al Fosso della Bettina). Era il 18 luglio: il Dies Alliensis (il «giorno dell’Allia») passerà nella storia come il «giorno infausto». A quella vittoria gallica segue una facile occupazione di Roma, messa a ferro e a fuoco; solo il Campidoglio, dove si raccolgono con i loro tesori donne, bambini e giovani superstiti, riesce a difendersi dalla furia dei vincitori.
L’avvenimento è di portata internazionale, al centro della letteratura latina e greca, fondamentale per la storiografia romana. Allora i Greci vengono a conoscenza di una città chiamata Roma e Polibio (Il, 35, 2) chiama questi «episodi della Fortuna» cioè la guerra gallica la più considerevole della storia. Ma la penuria dei viveri e la pestilenza favoriscono la riscossa dei Romani e impediscono che «tutto diventi Gallia» (Livio V, 44, 7), come era avvenuto nella civile valle padana degli Etruschi. Pur dopo un atto di violenza, simboleggiato dal grido del Brenno «Guai ai vinti», i vincitori sono costretti a tornare nelle loro parti (Polibio II, 18, 3), da dove tuttavia riescono a terrorizzare Roma per oltre un secolo. Finalmente i Romani possono portare la guerra nel territorio stesso dei loro nemici, che vengono defi- nitivamente sconfitti a Sentino (presso Sassoferrato) nel 296 a.C. e nel 283 Cornelio Dolabella trionfa sui Senoni, facendo strage nel loro stesso territorio e portando il loro capo Britomarte a Roma. A parte la opinione di alcuni, che fanno derivare da questa strage il nome di Marotta4, non si può mettere in dubbio che teatro principale di tale rovina è la nostra valle del Cesano.
Floro (I, 8, 3-4) scrive che Dolabella distrusse completamente i Senoni perché non ci fosse più nessuno di quel popolo che potesse vantarsi di aver incendiato Roma e che di fatti dei Senoni non c’è più nessuna traccia. Similmente parlano di questa distruzione altri scrittori antichi. Ma si tratta evidentemente di una esagerazione, perché, a parte quelli che, come scrive Polibio, ebbero la possibilità di fuggire altrove (in Francia, come afferma lo stesso Polibio, oppure nella regione alpina o anche in Grecia e in Galazia dell’Asia Minore) un grosso vestigio di quel popolo è rimasto nell’accento gallico delle nostre popolazioni; si può con certezza affermare che qui i Senoni sopravvivono come maggioranza etnica romanizzata. E il Giorgi osserva in proposito: «Se ammettiamo che i Galli Senoni siano stati scacciati completamente dal territorio, bisognerebbe ammettere che i Galli della vicina Emilia (Boi ecc.) si siano infiltrati nel territorio lasciato libero dai Senoni per poter giustificare il problema etnico-antropologico e linguistico attuale della zona. Certo è che i Romani esasperati per tante lotte, umiliazioni e timori, vistasi aperta la via al paese dell’odiato nemico si precipitarono pieni di sdegno, decisi a farne vendetta (…). Le uccisioni, le stragi, le razzie, gli incendi, le distruzioni superarono i limiti della prudenza romana. Però non fu lo sterminio. Se riuscirono a mettersi in salvo sulle colline numerosi cittadini durante la strage di Alarico perché non si sarebbero salvati altrettanti Senoni dal momentaneo furore dei Romani -2 Del resto il paese si presta assai alle evasioni».
La migliore opinione vede in questa asserita distruzione soltanto una schiavizzazione del popolo senone, limitando l’uccisione ai soli giovani in armi.

I ROMANI
Con la deduzione della colonia a Sena, che si chiamerà poi Sena Gallica = Senigallia dopo la fondazione della colonia di Sena lulia (Siena in Toscana), nell’anno 284 a. C., i Romani compirono un passo gigantesco per la conquista del mare «supero» cioè del nord Adriatico. Alla fine della prima guerra gallica, che si concluse dopo 107 anni dall’incendio di Roma, seguirono 45 anni di pace tra i Romani e gli altri Galli. Questa sosta servì, con rapido risultato, per il consolidamento definitivo dell’Agro Gallico nella romanizzazione dei Senoni superstiti. Allora veramente nessuna traccia rimarrà dei Senoni, che diventeranno i Galli romanizzati, i Senoni della Gallia Togata. Dopo 16 anni dalla colonia a Sena seguì quella a Rimini, quando venne terminata la guerra contro Pirro e contro i Picenti. Nel 238 a. C., dopo la guerra sicula, i Romani mossero guerra ai Galli Boi ed Insubri ed allora «la corsa rapidissima verso l’impero del mondo» (Floro I, 7, 1-
3) non si fermò più. Il territorio della Gallia Togata venne in primo piano con la legge Flaminia del 232 a. C., quando il tribuno Caio Flaminio Nepote, nello sviluppo del dibattito sociale a Roma, favorì la plebe contro il Senato, con l’assegnazione viritaria dell’Agro Gallico.
Il nome di Flaminio è legato anche alla via che da Roma portava a Sena e che, assai probabilmente passava per la valle del Cesano. Si deve accettare la tesi del Radke, che pone a Sena la stazione terminale della primitiva via Flaminia, costruita dal censore Flaminio nel 220 a. C. Questa via non passava per la gola del Furlo sulla valle della via Flaminia con termine a Sena è stata proposta e validamente difesa dal prof. RADKE dell’Università di Berlino in Ricerche su Camerino città Umbra nel 1964 e più recentemente in Viae publicae Romanae coll. 123-160, nel 1971. La via Flaminia, poi più famosa (essendo venuta a cessare la funzione strategica di Sena con la conquista della Gallia cispadana), del Furlo, Fossombrone, Fano e Rimini è la scorciatoia costruita nel 177 a. C. sotto il consolato di Sempronio Gracco e perciò chiamata «Sempronia».
Metauro per finire a Rimini, ma ripeteva, in senso inverso, la via dei Galli verso Roma e cioè da Roma a Sena per Terni, Spoleto, Camerino, Sentino. Rimane incerto l’itinerario da Sentino a Sena, se sulla valle del Misa o su quella del Cesano. La direzione del Misa è favorita dal cippo di Arcevia. Ma è da preferirsi la direzione del Cesano sia dal cippo della Madonna del Piano con l’esattezza delle 184 miglia da Roma (e 16 da Sena) 2sia dalla maggiore chiarezza del piano strategico nella battaglia del Metauro.
Cicerone è lo scrittore più antico a ricordare la battaglia del Metauro, che egli chiama «battaglia di Sena» (Brutus 18, 72-73). Tutti gli altri scrittori classici, greci e latini, fanno riferimento a questa città (Fano allora non esisteva, mentre avrà origine dal votivo «tempio della Fortuna», eretto in ricordo della battaglia al tempo della costruzione della nuova via Flaminia proveniente dal Furlo circa l’anno 177 a.C.). I consoli Livio Salinatore e Claudio Nerone con il pretore Lucio Porcio Licinio si riuniscono a Sena per tagliare la via ad Asdrubale, che aveva dato l’appuntamento al fratello Annibale di incontrarsi nell’Umbria. Asdrubale nel giugno del 207 a.C. era giunto sul fiume Cesano, sorvegliato e contrastato in questa marcia dal pretore Porcio Licinio3, probabilmente nelle località di Cento Croci, Gualdonovo e Sterpettine. Di fronte, a circa un chilometro di distanza (Livio, XXVII, 46, 4), sono schierati i Romani, probabilmente sotto Monte d’Oro dietro le colline presso l’autostrada. Il generale cartaginese, accortosi dell’accresciuto numero dei nemici, ordina la ritirata, ripassa la via cosiddetta Gallica (sulle colline di Mondolfo, San Costanzo e Cerasa), viene raggiunto mentre era alla ricerca del guado del Metauro e qui, a destra del fiume tra le Caminate e la Cerbara, sconfitto. È il giorno fausto del 24 giugno, di cui Ovidio nei suoi Fasti (VI, 769-774) e la battaglia del Metauro è considerata una delle più decisive battaglie della storia del mondo.
Questa battaglia interessa i nostri luoghi, oltre che per le fasi preliminari, come nell’azione di disturbo del pretore romano, anche per le fasi finali e successive. Secondo il Branchini nella valle del Cesano sarebbe stata distrutta la cavalleria cartaginese, inseguita da Porcio Licino, che, come si vedrà nel cap. VI, avrebbe dato origine al nome di Monteporzio, e di cui sarebbe indicazione il rudere romano, qui avanti ricordato, e numerose tombe con tegoloni simili a quelli della valle del Metauro 4. Secondo lo Scipioni da tali fasi conclusive sarebbe derivata l’etimologia di Orciano: qui si sarebbe trovato Annone, un capitano di Asdrubale, e Claudio Nerone, che scorreva la valle insieme con Livio Salinatore, avrebbe esclamato «urgeat Annonem», poi cambiato in Urgeano e quindi Urceano.
Nella questione, sempre dibattuta, sul luogo della battaglia del Metauro, Monteporzio nei tempi recenti è stato al centro della discussione. Il Buroni, in polemica contro le tesi del Basso Metauro (come egli chiama le opinioni, prevalenti, che determinano il luogo tra le Caminate e Cerbara) così ironizza: «In un batter d’occhi è addivenuto celebre Monte Porzio. Il Bonarelli vi sistema le legioni del Salinatore, le legioni di Porcio Licinio, i profughi riminesi; D. Getulio Rossi vi fa molestare fieramente la retroguardia di Asdrubale; D. Aurelio Branchini vi fa distruggere la cavalleria cartaginese “nella notte della fuga, poco prima delle undici alle due”. Interpretazioni, che nessun testo autorizza». A parte l’ironia del Buroni e le esagerazioni degli altri su certi particolari, non si può dubitare che i nostri luoghi siano stati teatro di quel grande fatto storico. Comunque, a parte ciò, molti sono i ruderi romani nella zona. «Monte Porzio:
1) Ascia romana di bronzo, rinvenuta presso i ruderi romani, nel 1925 (Ugo Rellini in Bullettino di Paletnologia Italiana, 1941-42, XIX-XX, anno V-VI, Nuova Serie, p. 115).

2) Nel predio Taddei, poco lontano dal Moraccio ho notato resti di costruzioni in calcestruzzo (Notizia del dott. G. Giorgi, nel 1952).

3) Il podere Micci, al confine di Monte Porzio, contiene moltissimi rottami di tegole di vasi antichi. In un muro simile al Moraccio si rinvenne un sepolcro ricoperto di tegole, con vasi ed un campanello privo di battacchio. In uno scavo praticato dal colono si rinvennero rottami di vasi da cucina, anfore ecc. (Notizie Scavi, 1878, p. 156).

4) Moraccio. Ivi sono ruderi di costruzioni in calcestruzzo; sopra il suolo e sottosuolo, resti fittili, tegoloni da tombe con ossa di scheletri, ecc. Presso il Moraccio nel secolo scorso vennero in luce vasi di terra cotta ordinari, legati con piombo, un pezzo di tegola con bollo L. AFID DEME, ed altre (Notizie Scavi, 1878, p. 156).

5) Nel podere Melangola, in luogo prossimo ove si fecero scavi nel 1878 si trovò un oggetto ove il direttore lesse: L. PEA AT., una tomba di età repubblicana e una casa romana (Notizie Scavi, 1878, p. 156 e 312)».
DALLA DISTRUZIONE DEI BARBARI ALLA RICOSTRUZIONE CRISTIANA.

I BULGARI
Come si è segnalato nei primi capitoli, il nostro territorio venne abitato fin dai tempi dell’età della pietra e se ne ricordano e se ne hanno tuttora le tracce, come quelle successive dei pregallici, dei Senoni e dei Romani. Non si è potuto, è vero, argomentare un centro abitato, tuttavia la nostra storia è direttamente interessata al grande avvenimento della fine dell’impero romano con la distruzione dei barbari e la trasformazione e ricostruzione operata dal cristianesimo. In un mutuo avvicendamento e relazione di effetto e causa, intervengono qui anche le condizioni economiche, ma ciò non impedisce che da allora, del resto come ora, questa storia è la storia delle chiese, con le quali nascono, si sviluppano e muoiono i villaggi.
Nel 408 dell’era di Cristo, Alarico, re dei Goti, scende in Italia, passa il Po a Cremona e venendo da Bologna e Rimini, porta la distruzione nel Piceno, come si rileva particolarmente dalle opere di Giordane e di Procopio1. Lo storiografo senigalliese, l’arciprete della cattedrale Giovanni Francesco Ferrari, precisa, ma da fonte incerta e insicura, che Alarico distrusse Senigallia il giorno 8 agosto, mentre il cognato Ataulfo distruggeva Suasa e Ostra 2. Da questo barbaro Ataulfo, sempre secondo il Ferrari, deriverebbe il nome di Mondolfo («Montataulfo- Montaulfo-Mondolfo»)3. Tali «distruzioni» debbono interpretarsi relativamente, data la sopravvivenza non solo di Senigallia, che riprenderà vita entrando a far parte nel sistema politico-militare della Pentapoli, ma, limitatamente fino alla fine della guerra gotica ed all’arrivo dei Longobardi, anche di Suasa e Ostra.
Potrebbe riguardare il territorio di Monteporzio e Castelvecchio una iscrizione latina in grafia greca, ritenuta spuria dal Bormann ma più probabilmente autentica, che dice: «(Io) Suasa, nata con le fatiche dei Greci, ho coperta tanta vastità (di territorio) che tu vedi. L’empio Alarico, volendomi distruggere, mi ha creato madre dei tanti castelli circostanti. Lode a Dio»5. Tra questi castelli dovrebbero annoverarsi quelli di Monteporzio e Castelvecchio e gli altri del territorio ora distrutti. La scomparsa di Suasa ha dato certamente modo di svilupparsi a questi castelli.
La vallata del Cesano fu certamente teatro della guerra gotica ed è probabile quanto viene riferito da alcuni che qui passò Narsete prima della sua vittoria definitiva a Busta Gallorum (= crematorio dei Galli), anche a prescindere se questa località venga situata a Gualdo Tadino o nel territorio di Sentino6. Questa guerra gotica e la successiva invasione dei Longobardi completarono la distruzione. Ma gli stessi barbari, convertiti al cristianesimo cattolico, iniziarono subito la ricostruzione. I nostri luoghi sono nel triangolo di territorio delimitato da tre monasteri insigni: Santa Maria in Portuno (Madonna del Piano), San Lorenzo in Campo e San Gervasio. L’abbazia di Santa Maria in Portuno testimonia il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, dal culto di Venere a quello della Madre di Dio; a San Lorenzo in Campo si venerarono le reliquie di San Demetrio portate qui al tempo dei Bizantini; a San Gervasio si ammira tuttora il sarcofago cristiano dei primi decenni del sec. VI: siamo cioè nel tempo prima dell’arrivo dei Longobardi. Più avanti si registreranno i primi ricordi dei nostri luoghi appunto dalle proprietà di questi tre monasteri.
Ma Monteporzio e Castelvecchio si ricollegano con San Gervasio con i vincoli etnici e religiosi: San Gervasio è la chiesa dei Bulgari, dei quali è presso di noi il primo storico centro abitato.
I documenti che accertano nel territorio comunale un luogo chiamato «Bulgaria», come solevano nominare gli emigrati Bulgari la località del loro stanziamento in ricordo nostalgico della «grande Bulgaria» alle foci del Volga, sono numerosi.
Il documento più antico è il privilegio concesso dall’imperatore Ottone III il 7 marzo 1001 all’abbazia di San Lorenzo in Campo, nel quale si parla della «cella di San Pietro in Bulgaria» nel territorio di Senigallia.
Il privilegio del papa Pasquale III del 6 febbraio 1112 allo stesso monastero conferma tra i vari beni anche «la corte di San Pietro in Bulgaria».
Il giorno 1 gennaio 1120 Mainardo, abate di San Lorenzo in Campo, concede in enfiteusi a Paolino e Vivolo, figli del fu Atto, ed a Berta loro madre tre moggi di selva e terra «nel fondo San Pietro dei Bulgari».
Il 21 ottobre 1127 Imelda, figlia del fu Guglielmo, e Corrado, figlio del fu Sifredo, cedono a Mainardo, abate di San Lorenzo in Campo, le loro proprietà, tra le quali elencano quella sita «nel vico dei Bulgari»
Il papa Anastasio IV, rinnovando il privilegio alla stessa abbazia il 27 novembre 1153, nomina tra i vari beni anche «il castello di San Pietro di Bulgaria»12.
Il papa Urbano III il 25 giugno 1187 conferma ancora questi beni, tra i quali «la corte di San Pietro in Volgaria».
Già da questa sintesi risalta che la chiesa, il fondo, il castello, la corte di Bulgaria fosse sita nel nostro territorio, trattandosi di beni siti nel comitato di Senigallia. Gli altri beni, siti nel comitato dei Senigallia, sono ben distinti, come Cerqua Cupa, Frattula, Carticosa ecc. Un documento, spurio ma nel caso della identificazione di piena validità, tratta della donazione di Gottifredo di Castel Berardo (presso Castelvecchio) al monastero di San Lorenzo in Campo14. Nel testo di questo documento si danno questi confini: «primo, il fiume Cesano; secondo, il Rio Maggiore; terzo, il castello di Busicchio»15. Inoltre, una nota nel verso del citato documento del 1127 sulla cessione di Imelda e Corrado è esplicita sul sito «In Bulgnisco di San Pietro di Monte Porco nel fondo di Monte Porco»16. A conferma si richiamano anche i due documenti del 3 agosto 1149 sui possedi- menti di Panfilia del fu Alberico, scritti «con mano antica e longobarda»17: i Bulgari convivevano con i Longobardi ed erano soggetti alle loro leggi.
Una difficoltà potrebbe essere il silenzio assoluto, nei secoli successivi fino al presente, sulla chiesa di San Pietro; ma ciò non è un caso unico, anzi è normale, perché tale silenzio si ha anche su altre chiese, come si vedrà qui avanti trattandosi della pieve.
Come spiegare la presenza di questo popolo nei nostri luoghi? come e quando vi sarebbero venuti? Presupposta la presenza dei Longobardi nella Pentapoli, cioè nelle «cinque città», tra le quali Senigallia, collegate con l’esarcato di Ravenna, e presupposta anche la convivenza dei Bulgari con i longobardi stessi, non si può escludere la possibilità di un ingresso in Italia con Alboino nel 568 e nella Pentapoli verso la fine del sec. VI18. Ma è più probabile la loro venuta quasi esattamente un secolo dopo secondo i racconti degli scrittori greci Teofane e Niceforo, riportati poi anche da Landolfo Sagace. Sintetizzando e spiegando tali racconti, si ricorda che al tempo dell’imperatore Costante II (641-668) o Costantino IV (668-685) Orbato o Crobato, re dei Bulgari, prima di morire aveva raccomandato ai suoi cinque figli di non separarsi ma di restare uniti senza dar mai fastidio agli altri popoli. In realtà solo il primo, di nome Buthaias, restò nell’antico territorio sul Volga: è il territorio chiamato «Magna Bulgaria» con la capitale Bulgar, dove i Bulgari resistettero vittoriosi contro i Mongoli e i Tartari; fino a Pietro il Grande i sovrani russi conservarono il titolo di Signori della Bulgaria. Il secondo figlio, Contarago o Cotrago, passò il fiume Don fermandosi di fronte al territorio del primo fratello. Il terzo, chiamato Hasparuk, passò il Danubio e si fermò nel territorio della odierna Bulgaria, dove, con l’indipendenza dall’impero bizantino, si formò il regno Bulgaro. Degli altri due figli, anonimi, il quarto andò in Pannonia assoggettandosi agli Avari, e il quinto venne nella Pentapoli, vicino a Ravenna, assoggettandosi all’impero dei cristiani. Di stanziamenti di Bulgari nella Pentapoli si ha memoria, oltre che qui a Monteporzio, anche nel vicino Ponte Rio, dove presso la chiesa di San Gervasio di Bulgaria era sito il «vico degli Sclavini» (i protoslavi uniti ai Bulgari), nel territorio di Rimini e di Osimo.
I nostri Bulgari erano un popolo pacifico di agricoltori, senza organizzazione militare. Dalle espressioni dei citati Teofane e Landolfo Sagace sembra dedursi che essi venissero qui ancora pagani. Ma ben presto si convertirono al cristianesimo ed è ricordo e monumento della loro fede la chiesa di San Gervasio, la chiesa parrocchiale di Monterado, che ha per titolare insieme con San Patrignano il santo degli Slavi San Giacomo Minore, i toponimi vari della nostra vallata riferentisi al santo nazionale dei Bulgari Sant’Andrea. Con Paolo Diacono (V, 29) si può dire dei nostri come di quelli del Molise:
«Ancora oggi (cioè al sec. VIII) gli abitanti di quelle zone, benché ormai parlino anche il latino, non hanno perduto l’uso della loro lingua». Questa lingua latina, «lingua veiculare» fra tutti i dialetti barbarici, finirà per prevalere, essendo l’unica scritta; anche le leggi barbariche venivano scritte in latino. I Bulgari erano in posizione
19 Su questo quinto figlio cfr. TEOFANE in MIGNE, PG, 108, col. 728; NICEFORO in MIGNE, PG, 100, col. 932; LANDOLFO SAGACE in MIGNE, PL, 95 col. 1056. I Bulgari stanziati in Lombardia e nel Piemonte sarebbero venuti in Italia insieme con Alboino. PAOLO DIACONO, V, 29, in un racconto parallelo, almeno cronologicamente, parla del duca dei Bulgari Alzeco, che ebbe delle terre deserte da Romoaldo, duca di Benevento e figlio del re longobardo Grimoaldo; con le città di Sepino, Boviano, Isernia e altre città si formò il gastaldato, da cui poi il comitato Molisano. Se si dovesse identificare questo Alzeco con il bulgaro Alzio dello pseudo-FREDEGARIO (in MIGNE, PL, 71, col. 651 n. 72), sarebbe stata lunga e tragica questa emigrazione: questi Bulgari si sono rifugiati in Francia ma il re Dagoberto in una sola notte li fece uccidere tutti con le loro mogli e bambini; Alzio ne sarebbe superstite con settecento uomini con le loro mogli e bambini.

Tratto da “Monte Porzio
e Castelvecchio nella storia” Mons. Alberto polverari