QUESTO È IL MIO CORPO. QUESTO È IL MIO SANGUE – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Mc 14,12-16; 22-26
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della
vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Nella narrazione della cena di Gesù l’evangelista Marco si rifà a due tematiche: la prima è quella della prima alleanza, quando Mosè prese un libro, il libro della legge, lo lesse al popolo, poi,
in segno di accettazione, asperse il popolo con del sangue dei vitelli; il secondo tema è quello delle due condivisioni dei pani e dei pesci, la prima in terra ebraica, la seconda in terra pagana. Leggiamo
quello che ci scrive l’evangelista, ci centriamo sui versetti principali, tenendo presente che Marco aveva sottolineato che era il primo giorno degli azzimi, quando si mangiava questo pane non
lievitato per immolare la Pasqua. In questa cena non c’è alcun riferimento alla cena pasquale ebraica, non c’è l’agnello perché è Gesù il vero agnello pasquale, la cui carne servirà per affrontare
l’esodo, la liberazione, e il cui sangue libererà dalla morte.
Scrive l’evangelista “Mentre mangiavano”, questa è una ripetizione perché l’evangelista ha già detto che erano a cena e mangiavano, ma nel primo avvertimento che erano a cena e mangiavano Gesù ha annunziato che uno dei discepoli, Giuda, lo avrebbe tradito. Allora la
ripetizione di questo verbo “mangiare” indica che questa è la risposta di Gesù al tradimento del discepolo, all’odio risponde con l’amore. “Prese”, non è “il pane”, che avrebbe indicato il pane azzimo, ma “un pane”. È il tipico pane palestinese, pane tondo, ed è importante questo, non c’è un animale. In un animale ci sono delle
parti più buone, che erano riservate alle persone ragguardevoli; il libro della legge prescrive per esempio che il petto e le cose siano riservate ai sacerdoti, il pane no, è il tipico pane palestinese, un
pane tondo, che è buono in ogni sua parte. La partecipazione all’eucarestia elimina le gerarchie, le importanze, e crea l’unità.
“E recitò la benedizione”; qui l’evangelista si rifà alla prima condivisione dei pani e dei pesci, quando Gesù benedì. “Lo spezzò e lo diede loro” quindi questo pane per i suoi discepoli “dicendo:
prendete, questo è il mio corpo”. Gesù si identifica con questo pane, Gesù invita i discepoli a mangiare, a prendere questo pane per dare adesione alla sua persona. Non c’è più un rotolo della
legge, il libro dell’alleanza, ma c’è una persona a cui dare piena adesione. “Poi prese un calice” e qui cambia il verbo, qui non c’è benedire, ma “rese grazie”, perché nella seconda condivisione dei pani e dei pesci in terra pagana Gesù ringraziò e “ringraziare” era un
verbo conosciuto in quella cultura; allora nell’eucarestia l’evangelista unisce il benedire, tipico dell’ebraismo, e il ringraziare, tipico del paganesimo. L’eucaristia non divide, ma unisce tra di loro
realtà completamente differenti. “E ne diede loro e ne bevvero tutti”. Mentre l’evangelista non ha sottolineato che il pane è stato mangiato, di questo calice dice che “ne bevvero tutti”. Non basta dare adesione alla figura di Gesù, bisogna accettare anche quello che il calice comporta, cioè la sua fine. Il significato di quello che c’è in questo calice ce lo dice Gesù “E disse loro: questo è”, non “il mio sangue dell’alleanza”, ma “il sangue della mia alleanza”. Gesù sostituisce l’alleanza; l’alleanza non è più basata sull’osservanza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore. Mentre il sangue dei tori, che era stato asperso sul popolo, era un sangue che esteriormente scendeva sulle persone, questo sangue, che è la vita stessa di Gesù, il sangue, nel mondo ebraico, è la vita si fonde, penetra nell’intimo della persona e lo fonde. L’evangelista realizza quello che ha annunciato dell’attività di Gesù: Gesù avrebbe battezzato, cioè immerso, impregnato le persone nello Spirito Santo, nella stessa forza della vita divina, ed ecco nell’eucarestia è dove avviene questa effusione. Il verbo “versare” appartiene a un salmo, il 79, che si leggeva la notte di Pasqua, dove si diceva che l’ira di Dio veniva versata sui popoli. Ecco, con Gesù non l’ira Dio, ma il suo sangue, simbolo della sua effusione e della vita, sarà versato su tutti.
Gesù conclude annunziando che “non berrò più il frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”, cioè una nuova qualità d’amore, che ancora non è a disposizione dei discepoli perché non hanno compreso quale sarà l’amore che lo spinge a dare la vita per i suoi. La conclusione è strana. Scrive l’evangelista “Dopo aver cantato l’inno uscirono”, perché escono? Il libro dell’Esodo proibiva di uscire la notte della Pasqua. Ecco, la comunità dei discepoli
con la partecipazione all’eucaristia non è più legata alla legge, all’obbedienza della legge di Dio, ma è animata dallo Spirito e lo Spirito rende libero, questo è il frutto dell’eucarestia.