Luciano Manicardi – 9 Dicembre 2021
Il coraggio di una domanda
Al cuore del messaggio evangelico della III domenica di Avvento dell’annata C (Lc 3,10-18) vi è la richiesta di conversione che il Battista rivolge a diverse categorie di persone. Conversione che trova la sua radice in rapporto al Signore che viene per operare un giudizio (v. 17): Giovanni non è un predicatore di morale, ma del Veniente. In questo senso egli è già evangelizzatore (v. 18): perché con la sua persona e con le sue parole annuncia il Cristo veniente e, chiedendo conversione, dispone ad accoglierlo e a conoscere così la salvezza di Dio.
La pericope evangelica scelta per la liturgia comprende i vv. 10-18 del capitolo terzo di Luca, ma un’intelligenza adeguata del testo esige che si leggano anche i vv. 7-9. Nei vv. 10-14 infatti abbiamo la predicazione sociale di Giovanni che si rivolge a folle, pubblicani e soldati indicando loro cosa fare in risposta alla loro domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. Domanda che si comprende solo alla luce della predicazione escatologica contenuta nei vv. 7-9. Giovanni parla dell’ira imminente e chiede di fare frutti degni della conversione, ovvero di mostrare esistenzialmente un cambiamento di fronte al giudizio annunciato. Allora nasce la domanda sul “Che fare?”. La predicazione sociale è poi seguita dalla predicazione messianica nei vv. 15-17, in cui Giovanni annuncia la venuta di Colui che è più forte di lui e che battezzerà in Spirito santo. I tre quadri della predicazione del Battista trovano unità nell’idea del limite che sottostà a ognuno di essi.
Nei vv. 7-9 si tratta del limite davanti a Dio, che chiede di essere rispettato, mentre l’autogiustificazione, il dire, presumendo e pretendendo, “Abbiamo Abramo per padre” (Lc 3,8), osa mettere le mani su Dio e ipotizza una salvezza senza conversione, senza cambiamento. Una salvezza dovuta, una salvezza per discendenza, per diritto di nascita.
Nei vv. 10-14 si tratta del limite di fronte agli altri, al prossimo: un prossimo che può essere misconosciuto nella sua umanità. Alle folle Giovanni chiede di condividere ciò che uno ha con chi ne è mancante. Gli esempi sono il vestito e il cibo. Ai pubblicani, cioè gli esattori delle tasse, che spesso esigevano dai contribuenti somme maggiorate, chiede di non pretendere più del dovuto, di non superare il limite del lecito. Ai soldati chiede di non maltrattare, di non usare violenza superando il limite del rispetto. Sempre si tratta di rispettare l’altro, di fargli spazio proibendo a se stessi di esercitare potere su di lui per averne un vantaggio per sé. Nel caso delle folle, rispetto del limite dell’altro significa colmare il suo bisogno con la condivisione, sottraendo qualcosa a sé per darla a chi ne è mancante. Nel caso dei pubblicani, significa non estorcere loro ciò che non sono tenuti a dare, non pretendere. Nel caso dei soldati, rispettare il limite degli altri significa non prevaricare, non molestare, non fare a loro ciò che è contro la loro volontà, non abusare. Abusare è oltrepassare una soglia interdetta, violare i confini dell’altro, del suo mistero, della sua sacralità. E farlo sfruttando la propria posizione di forza, di potere, il proprio ruolo. Dunque, avendo una copertura protettiva che rende difficilmente smascherabili e punibili.
Nella predicazione messianica (vv. 15-17) il limite da rispettare è il limite di fronte a se stessi. Poiché molti si domandavano riguardo a Giovanni se non fosse lui il Cristo, ecco che Giovanni, con autenticità e verità, dice la distanza tra sé e il Messia. Non usurpa il posto che non è suo, ma aderisce alla sua verità e resta al suo posto. Il limite verso Dio, il limite verso gli altri, il limite verso se stessi: il fare il male consiste nell’oltrepassare e violare questi limiti. Differenti sono le risposte di Giovanni alle tre categorie che lo interpellano e tale diversificazione concretizza in maniera peculiare il movimento di conversione richiesto a persone che si trovano in differenti stati di vita. Ma queste differenti richieste possono essere lette come elementi costitutivi di ogni cammino di conversione: condividere (v.11), non pretendere (v. 13), non abusare (v. 14). In effetti Giovanni non indica delle “cose da fare”, ma chiede a ciascuno di rimanere nel proprio stato facendo spazio all’altro, accogliendolo e impedendosi di esercitare potere su di lui. Giovanni non chiede gesti radicali come farà Gesù, non chiede di lasciare tutto e di seguire lui, ma mostra un livello imprescindibile della conversione, un livello molto umano e che non ha nulla di direttamente religioso. Si tratta di assumere l’umanità propria e quella degli altri, di addomesticare i propri appetiti, di assumere i propri limiti e di avere come misura della propria libertà la libertà degli altri. Essere se stessi consentendo agli altri di essere se stessi.
Giovanni predica un battesimo di conversione in vista della remissione dei peccati (cf. Lc 3,3) e a chi viene a lui per farsi battezzare senza operare cambiamenti nella propria vita, rivolge parole molto dure. Egli stronca sul nascere il possibile insorgere di espressioni autogiustificatorie dicendo: “Non cominciate a dire in voi stessi: ‘Abbiamo Abramo per padre’” (Lc 3,8). Dire in se stessi significa dire nascostamente, avere un retropensiero che si cela dietro le parole pronunciate che sono di segno contrario. E nella forbice che si apre tra detto e non-detto si insinuano la menzogna, l’inganno, l’abuso, la doppiezza. Ovvero, ciò che i vangeli chiamano ipocrisia. E qui si scatenano le parole veementi di Giovanni che portano folle, pubblicani e soldati a chiedere: “Che faremo dunque?” (Lc 3,10.12.14).
Ciò che unifica le tre categorie è la domanda. Giovanni assomiglia alla sentinella che nella notte intravede il sorgere dell’alba messianica e si rivolge a chi lo interpella dicendo. “Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite” (Is 21,12). Qui folle, soldati e pubblicani vengono, domandano e sono invitati a conversione con richieste precise. La conversione può iniziare con il coraggio di una domanda. O, almeno, di ciò che una domanda significa. Riconoscendo cioè di avere una carenza e riconoscendolo davanti a un altro a cui ci si rimette e da cui si attende una parola, un’indicazione di via. La conversione inizia con la presa di coscienza della propria condizione reale, che è condizione di distanza rispetto alle esigenze evangeliche.
Alle folle Giovanni dice di condividere le cose essenziali del vivere. Il verbo usato, metadídomi, indica che mediante il dare si crea comunione con colui a cui si dona. La modalità di questo dare è “senza fare calcoli”, “con semplicità” (Rm 12,8), ma la portata del verbo si estende a realtà decisamente radicali: Paolo vorrebbe raggiungere i cristiani di Roma per “condividere con loro qualche dono spirituale” (Rm 1,11); il grande dono che egli ha condiviso con i cristiani di Tessalonica è il vangelo, ma Paolo avrebbe voluto dare loro la sua stessa vita (1Ts 2,8). In profondità non si tratta solo di dare qualcosa a chi è nel bisogno, ma di esistere con gli altri proibendosi di vivere senza di loro. La condivisione trova il suo punto più alto nel condividere il tragitto di una vita intera fino alla morte.
Ai pubblicani dice di non pretendere, di non esigere “nulla più dello stabilito”. È una messa in guardia dal pretendere ciò che gli altri non hanno il dovere e forse nemmeno la possibilità di darci, ma più in profondità significa non porsi davanti agli altri con atteggiamento di chi prevarica. L’altro non è uno che mi deve qualcosa. Se lo vedo come un mio debitore entrerò in un rapporto perverso, di pretesa, non di gratuità.
Ai soldati dice di non maltrattare o molestare e di non estorcere o far torto. Questo verbo è in bocca a Zaccheo quando dice: “Se ho fatto torto a qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). Si tratta di non usare violenza, ovviamente, ma poi di non abusare della propria posizione di forza, di avere la giusta misura di sé, quindi di avere intelligenza dell’altro e della sua vulnerabilità.
L’invito a tutti è alla mitezza, a mettere cioè dei limiti al proprio potere per far vivere gli altri. E mentre invita alla mitezza Giovanni chiede la virtù della fortezza ai suoi interlocutori. Egli, infatti, propone dei “no” (non pretendere, non abusare, non far torto, non maltrattare) e dei “sì” (condividere, fare parte, dare) da dire a se stessi. Guardando il Signore che viene si può trovare forza verso se stessi, e si può convertire il proprio sguardo sugli altri, vedendo il loro bisogno per andarvi fattivamente incontro condividendo, rispettandoli nella loro unicità e astenendosi dall’avanzare pretese nei loro confronti come se fossero personale al nostro servizio. Insomma si tratta di elementi di una grammatica dell’umano e della relazione con l’altro che sono indispensabili per un cammino di preparazione delle vie del Signore, per andare incontro al Veniente. Così, mentre chiede di prepararsi ad accogliere il Signore che viene, il Battista dispone le persone ad accogliersi e andarsi incontro le une alle altre. Mentre chiede di essere pronti ad accogliere il Signore, chiede di rendersi in grado di ospitarsi e accogliersi gli uni gli altri.