LA DIGNITA’ DEL DISCEPOLO 28 giugno 2020
Mt 10,37-42
XIII Domenica nell’anno di Luciano Manicardi (Monastero di Bose)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «37Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la
troverà. 40Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Nel discorso apostolico, parlando delle opposizioni e persecuzioni a cui i suoi inviati andranno incontro, Gesù ha appena rivelato che la sua persona e il suo ministero, chiedendo agli uomini una decisione e una scelta, di fatto operano anche una divisione, suscitano conflitti e separazioni. Anche all’interno dello spazio famigliare si verificano lacerazioni e si creano inimicizie (Mt 10,34-36). La sua predicazione itinerante ha portato persone a lasciare la famiglia, a mettere in crisi
quel legame che era così fondante e basilare nella società dell’epoca e che comportava dimensioni sociali ed economiche non indifferenti. Ecco dunque che, da questa constatazione, Gesù passa a ottolineare la condizione del discepolo e le esigenze del discepolato, o, se vogliamo, a enunciare la “dignità” del discepolo. Per tre volte Gesù afferma che “non è degno di lui” chi ama padre o madre, figlio o figlia, più di lui, chi non prende la propria croce per seguirlo, chi tiene per sé (lett. chi “trova”) la propria vita (Mt 10,37-39). Il triplice “non è degno di me” non va inteso come valutazione morale, né significa che Gesù richieda prestazioni che rendono meritevoli chi le compie. Si tratta di una semplice constatazione: vive la sequela di Gesù chi antepone l’amore di Cristo ai legami famigliari e si dispone a vivere questo amore fino alla croce, alla morte infamante. Questi è degno di Gesù, cioè, suo discepolo.
Se Gesù antepone le esigenze del Regno di Dio ai legami e ai doveri famigliari, è perché lui stesso in prima persona ha vissuto con radicalità e passione bruciante l’urgenza del Regno che lo ha portato ad andare oltre i legami di sangue e a creare una “nuova famiglia” di cui non è criterio il sangue, ma l’ascolto della parola di Dio e il fare la sua volontà (Mt 12,46-50). Gesù ha attuato lui stesso un distacco radicale rispetto alla propria famiglia, tanto che l’evangelista Marco
ricorda anche il conflitto instauratosi tra Gesù e il suo clan famigliare (Mc 3,20-21.31-35). Gesù chiede anche ai suoi discepoli tale radicalità. Che può essere vissuta non come dovere da attuare, ma come desiderio ardente. Certo, porre le esigenze del Regno o, come sottolinea Matteo in questi versetti, la persona di Gesù, l’io di Gesù (nei vv. 37-39 il pronome personale di prima persona riferito a Gesù ricorre sette volte e culmina in quell’“a causa di me” del v. 39), al di
sopra di ogni altro valore sociale e personale, civile e famigliare, comporta un prezzo alto, molto concreto e quotidiano.
Se la famiglia era la struttura fondamentale dell’organizzazione dei villaggi della Galilea e presiedeva alla vita sociale ed economica delle persone, Gesù fa esplodere questo chiuso ambito di riferimento assumendo come orizzonte della sua predicazione il Regno di Dio e la salvezza di tutto Israele. Ne discende uno sconvolgimento dell’ordine dei valori sociali in nome del primato del Regno. Per radicarsi nella novità di vita instaurata da Cristo e nella sua comunità itinerante occorre dunque, da parte del discepolo, una netta presa di distanza rispetto alla “vecchia” forma di vita centrata sulla famiglia.
Questa radicalità sconfessa sul nascere ogni ipotesi di cristianesimo che voglia storicamente declinarsi come religione civile. Urgenza escatologica in vista del Regno e primato del Vangelo, ovvero, primato di Cristo (sinonimi di “a causa di me” di Mt 10,39, sono “a causa del Regno” di Lc 18,29 e “a causa del vangelo” in Mc 8,35 e 10,29), sono istanze che impediscono alla chiesa di appiattirsi sui valori sociali, morali e civili correnti. La differenza cristiana e, dunque, la ragion d’essere della chiesa, trova lì il suo fondamento.
Il discepolo poi, è chiamato a una sequela che ha come limite estremo la croce, il perdere la propria vita a causa di Gesù
(Mt 10,38-39). Compare qui per la prima volta nel testo evangelico la parola “croce”, anticipando il destino di morte che Gesù incontrerà. Chiamato a essere là dove è stato anche il suo Signore, il discepolo è abitato dalla disponibilità ad assumere e portare la propria croce. Il discepolo, infatti, pone la propria vita nella vita del Signore. Perdendo – nella libertà e per amore – la sua vita nel Signore, nel Signore il credente la ritrova. Prendere la propria croce significa assumere e portare lo strumento della propria condanna a morte. “L’espressione ‘prendere la propria croce’ “mira ad un avvenimento del tutto concreto, e cioè al momento in cui il condannato alla crocifissione si carica sulle spalle la trave trasversale (patibulum), per compiere uno spaventoso itinerario tra la moltitudine urlante e ruggente, che lo accoglie con dileggi e imprecazioni. L’amarezza di questo cammino sta nella sensazione di essere scacciato senza pietà dalla società e consegnato senza difesa all’oltraggio e al disprezzo. Chiunque mi segue, dice Gesù, deve rischiare una vita altrettanto
difficile quanto la via crucis di un condannato in cammino verso il patibolo” (Joachim Jeremias). Il discepolo deve disporsi a questa perdita di sé che sola gli consentirà di perseverare nel cammino. Quando tutti gli appoggi umani verranno meno, quando il senso stesso del cammino si farà indecifrabile, quando le motivazioni che avevano indotto un tempo a seguire Cristo non appariranno più sufficienti, allora l’attitudine che il vangelo chiama “prendere la propria croce” si rivelerà essenziale per proseguire il cammino in una fede sempre più spoglia e sempre più autentica. I vangeli ci dicono
che non la croce ha reso grande Gesù, ma è la vita di Gesù che ha dato senso anche alla croce (perfino alla croce) quando vi è stato appeso. Anche la perdita della vita a causa di Gesù richiesta al discepolo è comprensibile e leggibile alla luce dell’esistenza di Gesù stesso. Gesù non ha avuto come fine l’autoannichilimento, il perdere la propria vita, ma il
viverla pienamente e gioiosamente perseguendo la libertà e l’amore. E amando liberamente fino alla fine, fino all’estremo, fino al punto di non ritorno (“Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine”: Gv 13,1ss.). E Gesù ha vissuto donando vita: ai malati, ai peccatori, agli emarginati, ai disprezzati, Gesù ha saputo, cioè ha scelto e voluto, dare vita. Il suo perdere la propria vita, è stato un donare tempo, forze fisiche e spirituali, energie
psichiche e affettive: Gesù ha donato la sua vita dando vita agli altri. Non è stato un mero perdere, ma un donare, un generare, un trasmettere. Il perdere la vita che qui è richiesta è in realtà un invito ad amare come Cristo ha amato. Dopo queste parole radicali sulle dure esigenze richieste al discepolo, la seconda parte del testo evangelico contiene un messaggio che riguarda l’accoglienza del discepolo (Mt 10,40-42). Questo accostamento del discorso sull’accoglienza del discepolo a quello sulle esigenze del discepolato, strappa il discorso dell’accoglienza all’etica delle buone maniere e
lo inserisce nel radicalismo cristiano. La “sacramentalità” dell’inviato (“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha inviato”: Mt 10,40) è connessa al rispetto, da parte di quest’ultimo, di condizioni esigenti e dure poste da Gesù. Per trasmettere la benedizione e rendere destinatari della promessa coloro che accoglieranno gli inviati di Gesù, occorre che questi siano veramente legati all’Inviante e lo amino al di sopra di tutto e di tutti, anche dei genitori e dei figli (cf. Mt 10,37).
La fecondità dell’accoglienza è espressa dal vangelo affermando che chi accoglie i discepoli di Gesù non resterà senza ricompensa, anzi, l’ospite accolto e riconosciuto nella sua identità profonda, attrae e assimila a sé colui che lo accoglie: “Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, riceverà ricompensa del giusto” (Mt 10,41). L’accoglienza, prima di essere materiale e logistica, è spirituale, ovvero, è riconoscimento dell’identità profonda dell’altro: profeta, giusto, discepolo (vv. 41-42). Se il testo parallelo di Luca parla di
ascolto di un messaggio (“Chi ascolta voi ascolta me”: Lc 10,16), Matteo sottolinea l’accoglienza del messaggero. I due
aspetti sono evidentemente correlati e inscindibili, ma è importante ricordare la dimensione umana dell’accoglienza di una persona, che richiede di mettere in atto gesti, attenzioni, premure, intelligenza dei bisogni dell’altro (si noti il dettaglio del dar da bere “un bicchiere d’acqua fresca” in Mt 10,42 che ci rinvia al clima caldo e secco palestinese e alla sete di colui che ha percorso molta strada a piedi), perché l’accoglienza è sempre accoglienza di un corpo da parte di un altro corpo. La realtà dell’amore non si misura su slanci affettivi, ma su questa effettività. E poiché noi non sappiamo mai chi
incontriamo, chi ci è inviato, chi riceviamo, il lavoro di accoglienza richiede attenzione e discernimento, ascolto e osservazione per lasciarsi raggiungere e toccare dall’altro. Così l’incontro con l’altro diviene una visita che assomiglia a una rivelazione. Diviene una visitazione.